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SOTTOSVILUPPO
La condizione di arretratezza, povertà tecnologica, indigenza e soprattutto di divario in termini di capacità di promuovere e padroneggiare il proprio sviluppo delle nazioni dell'Africa, dell'Asia e dell'America latina, per le quali negli anni cinquanta fu coniata l'espressione globale di Terzo mondo. È definibile essenzialmente in modo negativo: non raggiungimento di certi obiettivi (reddito, tasso di crescita, consumi, istruzione ecc.), non soddisfazione dei bisogni primari, impotenza di fronte alle forze ostili della natura. Non si tratta però di un valore o disvalore assoluto.

CONSEGUENZA DEL COLONIALISMO.
Storicizzato, è la conseguenza del colonialismo e della decolonizzazione e il concetto si formò quindi dopo la Seconda guerra mondiale. Per quanto l'argomento sia fra i più controversi, e pur essendo per altri aspetti il prodotto di fattori climatici, geografici o culturali, il sottosviluppo nella sua accezione corrente esiste solo in funzione del modo di produzione capitalista e dell'espansione coloniale dell'Europa che trapiantò il capitalismo nelle aree "esterne". I secoli che precedettero l'industrializzazione e l'imperialismo coloniale mostrano un distacco meno accentuato tra l'Europa e il resto del mondo e minori possibilità di una comparazione effettiva. Nel concetto di sottosviluppo è anche implicito un grado maggiore o minore di dipendenza che deriva dalla divisione internazionale del lavoro, appunto di origine coloniale, con il "drenaggio" delle ricchezze a favore del "centro" e le distorsioni a suo tempo provocate dallo scambio ineguale dell'economia di tratta (vedi commercio triangolare) per cui, anche a parità di sviluppo materiale con il nord del mondo, gli stati del sud o del cosiddetto Terzo mondo scontano una perdurante situazione di inferiorità. Dall'economia si sconfina quindi nella politica. La fenomenologia del sottosviluppo emerse in tutte le sue dimensioni per effetto dell'indipendenza dei possedimenti e territori coloniali, costretti a fare a meno sulla scena mondiale della mediazione degli stati a economia forte, generando per reazione (in un misto di solidarismo, di clientelismo selettivo e di tentativo di sopperire alle carenze di mezzi finanziari e imprenditorialità con apporti esterni) la politica dell'assistenza internazionale allo sviluppo. Naturalmente i limiti oggettivi di uno sviluppo predeterminato a corrispondere alla domanda del mercato internazionale più che alle esigenze delle popolazioni interessate pesarono a lungo. Le classi dirigenti locali postcoloniali non erano attrezzate per invertire la tendenza. La stessa interdipendenza, su cui si fondò la ricerca di una cooperazione organica e non meramente contingente, è destinata, stante il divario tra mondi che si trovano in un diverso stadio di sviluppo, a perpetuare ed esasperare l'ineguaglianza dei ruoli rispettivi.

LE CAUSE STRUTTURALI. Con l'indipendenza, comunque, e tanto più quanto più ci si allontana dall'epoca coloniale, i processi più propriamente interni (le risorse a disposizione e la loro gestione, gli incentivi e le politiche dei prezzi, la stabilità e la competenza dei governi) cominciarono a concorrere con quelli di ascendenza coloniale o in senso lato esterni. Le spiegazioni unicausali del sottosviluppo, e in particolare la teoria dependentista elaborata in America latina, persero molta della loro attualità e pregnanza: suggestive per leggere la realtà indifferenziata del sottosviluppo all'atto della disgregazione degli imperi coloniali dopo la Seconda guerra mondiale e nell'immediato dopo-indipendenza, furono soppiantate in tutto o in parte dalle relazioni e dalle scadenze che maturarono nei continenti del sottosviluppo con l'evoluzione degli stati e delle società e la relativa diversificazione. La strategia dei paesi in via di sviluppo per riformare l'economia mondiale (anzitutto nelle varie istanze dell'Onu, che nella lotta al sottosviluppo individuò dopo il 1960 una delle poste più importanti e qualificanti della sua attività) partì dalla richiesta di aiuti, sino a fissare la soglia dell'1 e poi dello 0,7 per cento del prodotto dei paesi industrializzati da devolvere in aiuto pubblico allo sviluppo, per arrivare al sistema delle preferenze per i prodotti finiti messi sul mercato dai paesi del Terzo mondo e approdare finalmente, con gli anni settanta, al nuovo ordine economico internazionale che si prefiggeva di propiziare l'incorporazione dell'area ex coloniale correggendo per via negoziale gli inconvenienti delle asimmetrie. Sul piano interno, molti stati neoindipendenti si fecero tentare da un modello di sviluppo industriale imperniato sulla sostituzione delle importazioni, con un carattere il più possibile autonomo, spesso per un pregiudizio ideologico che non permise di valutare bene i costi economici. I successi maggiori si registrarono invece nei paesi che avevano adottato modelli di industrializzazione basati sull'export, senza distinguere tra prodotti esterni e prodotti nazionali ma accettando il principio del massimo beneficio; questi ultimi formano il gruppo dei Nic (New Industrialised Countries, nuovi paesi industrializzati), per lo più paesi asiatici (Corea del sud, Taiwan, Singapore ecc.), che mantennero un elevato tasso di crescita anche nel periodo di recessione a livello mondiale (1973-1985) e che furono considerati una specie di dimostrazione tangibile che il sottosviluppo non è l'unico e inevitabile sbocco della penetrazione del capitalismo nella periferia.

GLI ANNI NOVANTA. Il Terzo mondo negli anni novanta si presentava ormai disarticolato e l'economia di alcuni paesi del sud cresceva a ritmi più accelerati del "centro". Le statistiche della Banca mondiale raggruppavano i paesi in via di sviluppo a seconda della fascia di reddito: in alto i Nic, alcuni paesi dell'America latina, i paesi esportatori di petrolio; in basso la maggioranza dei paesi africani, il Bangladesh, alcuni paesi insulari o occlusi; la Cina e l'India sono un caso a sé per le loro dimensioni e potenzialità tecniche a prescindere dal livello quantitativo del reddito. Ma questa classificazione non è del tutto convincente. Da una parte si affida infatti a parametri di misurazione presi in prestito dalle società occidentali, primo fra tutti il prodotto interno lordo (Pil), che non può essere rivelatore dello standard reale di vita della popolazione di una nazione sottosviluppata, in cui sopravvive o predomina l'economia di sussistenza o di autoconsumo. Dall'altra parte trascura le disparità che esistono all'interno delle singole nazioni, nonché questioni come l'uguaglianza delle opportunità. Quantunque i paesi in via di sviluppo abbiano faticato ad ammettere il rapporto tra sottosviluppo e sovrappopolazione, la pressione demografica va tenuta presente, se non altro perché la crescita della popolazione è tendenzialmente più rapida nei paesi in via di sviluppo e in molte situazioni (in Africa specialmente) essa riduce o addirittura annulla, quando ci sono, i miglioramenti della produzione alimentare. Collegamenti con il sottosviluppo assunse, soprattutto dagli anni ottanta in poi, l'andamento dei flussi migratori da sud a nord, anche se intervengono qui motivazioni più complesse ascrivibili ai rapporti storici, alle occasioni di lavoro e all'intraprendenza personale, oltre che a situazioni di guerra e di persecuzioni politiche o etniche.

G. Calchi Novati

W.W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino 1962; G. Myrdal, Saggio sulla povertà in undici paesi asiatici, Il Saggiatore, Milano 1968; P. Bairoch, Lo sviluppo bloccato, Einaudi, Torino 1976; S. Amin, Lo sviluppo ineguale, Einaudi, Torino 1977.
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